Chiudono i ristoranti di Jamie Oliver

Ventidue su venticinque ristoranti dello chef britannico Jamie Oliver verranno chiusi. Il bilancio è da lacrime e sangue: la KPMG, incaricata di gestire l’amministrazione in attesa di ulteriori sviluppi, lascerà forse a casa più di mille persone.
Le trasmissioni di cucina e i ristoranti
La prima volta che vedevi il suo faccione garbato in televisione, magari in una delle trasmissioni di La Effe, ti faceva simpatia. Niente arie; solo l’aria un po’ sgangherata, da piazzista. Fisico arrotondato, modi schietti e parlata Estuary English, pur doppiato in italiano con una voce da imbonitore, Jamie non suscitava odio, anzi. Poi arrivavano le ricette ispirate alla cucina italiana, e allora i progetti omicidi prendevano il posto della simpatia, tramutando anche il più aperto sostenitore del melting pot nel peggiore squadrista culinario del Ventennio. Perché il melting va bene per tutto, ma non per le pot. Le pentole, nell’emiciclo della cucina tradizionale italiana, vanno trattate con cura. C’è forse spazio per un cauto riformismo; di certo non per le anarcoidi rivoluzioni di un inglese del sud-est: una pasta al pesto con aggiunta di pollo, fagiolini e spinaci è un attentato all’Italia unita; una carbonara al chorizo non è una rivisitazione ma un colpo di stato.
Dal Neal Street Restaurant a Jamie’s Italian: un impero della ristorazione.
Jamie, nato a Clavering, un villaggio dell’Essex, inizia a lavorare al pub dei genitori, il The Cricketers, facendosi poi assumere come sous chef al River Café di Fulham. L’Italia doveva essere già allora nel suo orizzonte, essendo il River uno dei più vecchi ristoranti italiani di Londra. Da lì Oliver approda al Neal Street Restaurant di Covent Garden, chef Antonino Carluccio. Da Carluccio impara un certo tipo di cucina e viene notato (era il 1997) dalla BBC, che gli propone di condurre uno show. Da allora Jamie non si ferma più. Vent’anni e una lunga fila di trasmissioni e libri dopo, Jamie fonda un impero, riassunto a dovere da un articolo del Guardian: i ristoranti della catena Jamie’s Italian sono 23, oltre al suo primo ristorante londinese, il Fifteen, e il Barbecoa, una steak-house. Assieme a loro, una sfilza di negozi di cucina, Recipease, una catena di ristoranti di cucina inglese, Union Jacks, una rivista (di cucina of course), Jamie, e chi più ne ha più ne metta.
Le ragioni della caduta
I primi segni del crac c’erano già stati: nel 2015 Oliver aveva chiuso Recipease; nel 2017 era toccato alla catena Union Jacks e alla sua rivista. Solo il reparto cucina italiana, cui aveva legato il proprio nome, resisteva, pur con significative flessioni. Adesso il fallimento, con la società di consulenza fiscale KPMG chiamata a pilotare un transatlantico con a bordo più di 1300 dipendenti. Perché? Secondo una riflessione del Sole 24Ore non c’è un’unica ragione ma un insieme articolato di cause, a partire dai costi altissimi degli affitti al centro di Londra, dove Jamie ha aperto in luoghi non proprio economici: London Bridge, Piccadilly, Covent Garden, Victoria Station. Anche la svalutazione della sterlina ha danneggiato gli affari, aumentando i costi di importazione delle materie prime. Così l’aumento del costo della manodopera e una corsa spregiudicata all’apertura di nuovi ristoranti in un momento di generale inflazione di catene di ristorazione di medio livello. Una robusta spallata proviene, poi, dall’esplosione del cibo a domicilio, causa o effetto della fioritura delle società di delivery, che hanno ridotto del 6% le entrate di tutti i ristoranti di Londra nel primo trimestre del 2019.
L’importanza di attenersi al piano
Basta questo? Forse no, e ce lo racconta una ormai nota sfuriata andata in onda sulla televisione inglese. Durante il programma di ITV This Morning, un furioso Gino d’Acampo abbaiava contro Rochelle Humes, lanciandosi, tra l’indignato e l’estenuato, in un italianissimo che schifo! Orchestrata o no, in quella pantomima c’era un sincero disprezzo per la fatica culinaria della cantante, rea di avere innovato il ragù di carne a colpi di funghi e panna acida. In quella sfuriata del cuoco napoletano si trova anche una parte delle ragioni del fallimento di Jamie: don’t adapt anything. Do I come here and I adapt the things that you do? Have you ever seen me adapting a shepherd’s pie? continuava Gino. Come dire: perché questa irrefrenabile voglia di mettere le mani dove non devi? Tienile in tasca, o sul ricettario.Come poteva la generica cucina italiota di Jamie, per giunta imbastardita da improvvide iniziative, reggere il confronto con un pubblico straniero sempre più ligio all’ortodossia della vera cucina di casa nostra? Perché andare a mangiare tacchino tonnato quando a Londra è ormai semplice trovare un vero ristorante piemontese fatto col vitello? Perché mangiare all’italiana quando a Londra puoi ormai mangiare siciliano, lombardo o romano? Stick with the plan! urlava Gino. L’avesse ascoltato anche Jamie, chissà.