Il Sommelier sa di tappo

Da poco uscito su Netflix, Il Sommelier ha naturalmente attirato l’attenzione di tanti amanti del vino. Siamo a Memphis, oggi. Elijah ha vent’anni e si mantiene con due lavori: commesso in un negozio di vini e liquori e addetto nel ristorante – griglieria di famiglia. Se tra gli scaffali di Pinot e Chardonnay il ragazzo si lancia in appassionati consigli alla clientela, in mezzo ai fumi del locale si trascina stancamente. Il suo sogno, non ci sarebbe bisogno di dirlo, è di fare il sommelier. Il padre, ovviamente, non è d’accordo, ma Elijah si prepara con determinazione e dedizione. Vuole acquisire il titolo, e non uno qualsiasi: quello molto ambito di Master Sommelier.
Jay-Z, lo chardonnay e la schiavitù
La trama di Uncorked (questo il titolo originale) si fonda sui passaggi più canonici di ogni storytelling: un sogno, le difficoltà per raggiungerlo, la caduta, la lotta per il riscatto, la consapevolezza finale. Non ci sarebbe niente di male, anzi, se il risultato non fosse così incolore. A un professionista del vino, ma anche a un semplice curioso, documentari come Sour grapes, o Somm (giusto per rimanere nell’alveo di Netflix) diranno molto di più di questo rigido polpettone zeppo di luoghi comuni. Il vino? Se ne vede poco, a volte presentato attraverso pesanti concessioni all’imperante varietalism statunitense, declinato in similitudini a volte discutibili (Jay-Z e lo chardonnay) e altre volte in battute incomprensibili al pubblico italiano, o perché non segue le faccende d’Oltreoceano (l’uscita su Kanye West, il pinot grigio e la schiavitù come scelta) o perché giocate su assonanze già esili in inglese (l’equivoco a tavola tra sommelier e somalo) e quindi pietose alle orecchie di un non madrelingua.
Un film che sa di tappo
Cosa c’è dietro la miscela del film? Una trama debole, piatta, senza arte né parte. Un passaggio radente sulle differenze sociali tra l’ambiente bianco e “upper side” dove vorrebbe lavorare il giovane sommelier, e quello popolare e nettamente nero dell’attività di famiglia. L’eterno ma stinto conflitto tra padre e figlio, tra aspirazioni personali e dovere nei confronti della famiglia. Accenni superficiali alla professione del sommelier, a volte smaccatamente rubati al documentario Somm: il personaggio di Elijah e il sapientone spocchioso interpretato da Matt McGorry, sembrano molto ispirati a uno dei protagonisti del documentario del 2014, il biondo Ian Cauble. Forse troppo, considerato che la scena del ripasso delle schede in auto fa sospettare, se non il plagio, almeno una robusta ispirazione.
In un’ora mezza di girato non emerge né la fatica né la sofferenza che richiederebbe una sfida adeguata all’aura celebrativa di cui è ammantato il titolo di Master Sommelier. Se Elijah, al posto del sommelier, avesse voluto diventare un fabbro, o un pittore, non ci saremmo accorti della differenza. Fosse un vino, sarebbe carente di struttura e di intensità, poco equilibrato e decisamente non armonico. Dovessimo assegnarli un punteggio, non andremmo oltre i 70 punti. Unico pregio? Rivelare come la professione del sommelier sia ormai ritenuta, dai media, appetibile per un pubblico più ampio. Poteva venire meglio, certo, ma ci auguriamo che questo sia solo l’inizio.