Il grande cuore ruvido del Sangiovese di Romagna

Sangiovese e Romagna. Questo binomio porta con sé un passato travagliato, dove il ricordo del successo turistico della Riviera più famosa d’Italia si riverberava sulla groppa di un vitigno destinato, da produttori e consumatori, a bevute scompagnate e pubblicità caricaturali. Esacerbato da spot in cui le solatie colline della regione venivano solcate da ragazze in gonna lunga e bicicletta, il sangiovese ha scontato colpe non sue, arrancando controvoglia strattonato al ritmo del liscio di Raoul Casadei.
Una vita da gregario
Il sangiovese romagnolo è stato relegato per troppo tempo nel limbo dei figli non battezzati dal successo, fratello minore del sangiovese toscano. Sguardo da duro ma grande cuore, chiamato per decenni a interpretare produzioni di massa, senza alcuna velleità di impegno, questo rosso di Romagna ha svolto nel mondo del vino il ruolo che nel cinema spettava agli anonimi omaccioni che nei film rappresentavano padroni di bar e conducenti di taxi. A un certo punto della sua storia, la svolta: come i Michel Simon, i Jean Gabin, i W. C. Fields, anche il grosso sangiovese romagnolo ha trovato la strada della fama, e ha iniziato a percorrerla.
La riscossa della Romagna
Più di 7.000 ettari vitati, con quote tra i 100 e i 300 metri, e circa 16 milioni di bottiglie prodotte. Vitigno difficile da domare, incapace di dare risultati soddisfacenti su terreni alieni alla propria natura, il sangiovese romagnolo è un ciuco testardo che restituisce calci a chiunque intenda stemperarne la foga a suon di busse enologiche. Diluito e ottuso, addenta allora la lingua con le forze rimaste, o dondola cascante in bocca, freddo e anodino come un morto. Quando incontra il produttore giusto, invece, tutta la finezza dei tannini, la sapida energia, la succosa vitalità del frutto emergono all’assaggio. Oggi valorizzato da un disciplinare che contempla anche una versione Superiore e una Riserva, il Romagna Sangiovese può vantare una lodevole opera di zonazione, ancora dipendente, forse, più dalla mano di chi lo produce che dal terreno su cui si coltiva, ma che rappresenta il brillante inizio di un viaggio che dovrebbe portare negli anni al giusto riconoscimento del territorio e del vitigno.
Le sottozone del Romagna Sangiovese
Partendo da nord-ovest, dodici le sottozone: Serra, Brisighella, Marzeno e Modigliana, poi Oriolo e Castrocaro, Predappio, Bertinoro e Meldola, Cesena, San Vicinio e, infine, Longiano. Divise tra valli, l’una affiancata all’altra, le zone del Sangiovese di Romagna compongono un enorme, complesso mosaico di terreni e altezze, di cui il vitigno vorrebbe, un giorno, essere traduttore fedele. Così a Modigliana è l’eleganza del tannino e la freschezza tipica dei vigneti più alti a risuonare (citofonare Balìa di Zola, Castelluccio, Torre San Martino e Villa Papiano, tra gli altri) mentre a Bertinoro e Predappio la formazione di arenaria calcarea nota come spungone promette complessità, longevità, struttura e brio, come nei vini di Noelia Ricci, La Fornace, Fattoria Nicolucci, per citarne giusto tre. A Longiano Villa Venti dedica un clone di sangiovese differente per ogni sfumatura di argilla presente sul terreno, dando vita a un vino di grande potenza. A parlare di raffinatezza e bevibilità pensa la zona di Oriolo, con le argille e le sue sabbie gialle, dette molasse, risalenti al Pleistocene.
Promesse per il futuro
Il Romagna Sangiovese, se lasciato libero di esprimere le proprie peculiarità, potrà riscuotere negli anni il proprio compenso. L’Associazione Italiana Sommelier, e l’Associazione Italiana Sommelier Romagna, sono da tempo al lavoro in questo senso, in special modo con il concorso a lui dedicato, quel Master del Sangiovese che elegge ogni anno il miglior sommelier ambasciatore del territorio e del vitigno. Distante dall’immagine da riviera e ombrellone, al sangiovese romagnolo si confà un tono più sanguigno: l’occhio strabuzzato di Aurelio Biondi alla tavola di Amarcord e la torrida tensione del fiasco che assiste al dialogo pericoloso tra Clara Calamai e Remo Girotti al tavolo della cucina di Ossessione. Tenerlo lontano dall’annacquato immaginario di vino a buon mercato sarà difficile ma i segnali sono promettenti e l’impegno costante. Lunga vita al buon “villano” sanzve’s.
Gherardo Fabretti