Koshu: all’ombra del Monte Fuji

Ai più il Giappone ricorderà il sakè; magari, in seconda battuta, il whisky. Non il vino. Eppure, da qualche anno a questa parte, alle pendici del monte Fuji, il “ribollir dei tini” si fa sentire eccome. Tutto merito del koshu, un vitigno ibrido frutto dell’unione tra la vitis vinifera e l’asiatica vitis Davidii. A bacca rosa, diffuso nella Cina centrale, ha trovato casa anche nella provincia nipponica di Yamanashi, lì dove (in condivisione con l’adiacente provincia di Shizuoka) dimora il monte sacro più noto del paese, il Fuji.
“L’uva è ideale per il clima umido e piovoso del Giappone. Ha la buccia spessa, resistente al marciume“, dice uno dei fratelli Aruga, Hiro, proprietario della cantina Katsunuma Jozo, tra le prime a vinificare questo vitigno. “Storicamente, Koshu era il nome dell’area intorno alla prefettura di Yamanashi – continua Hiro – ecco perché l’uva coltivata a Yamanashi si chiama uva Koshu. La viticoltura qui prospera da almeno dodici secoli: merito del bel tempo, degli sbalzi di temperatura e del terreno, sempre ben drenato“.
Proprio la buona volontà di un membro della famiglia Aruga, Yuji, padre di Hiro, ha portato la Katsunuma Jozo a farsi conoscere al di fuori del paese. Quindici anni fa, infatti, decise di partecipare a una competizione vinicola in Francia con un vino della cantina, catturando l’attenzione di Bernard Magrez, proprierario, tra le altre, della cantina bordolese Château Pape Clément. Magrez propose a Yuji di introdurre il koshu in Europa. Da allora il koshu non si è mai fermato: nel 2010 è stato inserito nell’elenco delle varietà dell’Organizzazione internazionale della vite e del vino (OIV) e l’anno scorso il Giappone ha varato apposite norme per la tutela. Il volume delle esportazioni è passato da 45.000 litri a 58.000 litri dal 2015 al 2017, con un aumento di quasi il 30%, secondo l’agenzia nazionale delle imposte. Niente male per un’uva destinata al consumo da tavola fino a poco più di un secolo fa.
“Per molto tempo le uve koshu venivano vinificate lasciando un pesante residuo zuccherino“, dice Ernie Singer, commerciante di vino nel paese, “oggi, invece, viene valorizzato vinificandolo in secco“. Singer è arrivato in Giappone a dodici anni, al seguito del padre, ingegnere militare di New York, e ha svolto un ruolo fondamentale nella riscossa del koshu, appoggiandosi alla consulenza dell’enologo Denis Dubordieu. Assieme a lui altre cantine, come Château Mercian e Grace Wine hanno impresso un nuovo, innovatico corso, alle sorti del vino made in Japan.
Shigekazu Misawa, il proprietario di Grace Wine, ha piantato vigneti ad altitudini più elevate; come sistema di allevamento ha sostituito al tradizionale pergolato degli ordinati filari “alla occidentale”. Sua figlia Ayana, che ha studiato da enologa a Bordeaux, ha individuato singoli vigneti, evidenzianone le peculiarità geologiche, e sperimenta con il legno, sul quale, però, invita alla prudenza: “gli aromi del koshu sono molto delicati” e rischiano di essere sopraffatti dal rovere.
I colossi del bere giapponese Kirin, Sapporo e Suntory (che nacque un secolo fa proprio come cantina), hanno da tempo fiutato l’affare, comprando terreni e cantine a Yamanashi. L’intento, naturalmente, è quello di sfruttare il versatile vitigno per lanciarne versioni diverse. Tutti i produttori, infatti, giocano con il legno, le macerazioni e le maturazioni per soddisfare ogni tipo di gusto. La strada è ancora lunga, ma di koshu sentiremo parlare sempre di più.