Naturale non vuol dire improvvisare
Pochi argomenti nel mondo del vino dividono la platea quanto il vino naturale. A vivificare il dibattito, un mese fa, Sandro Sangiorgi, che in un articolo pubblicato sul suo sito, Porthos, col titolo Il topo e il var, mette in guardia da derive modaiole che privano il vino naturale del suo statuto più autentico. Privo di definizioni a norma di legge, a volte rischia di finire impantanato nella mota del marketing, ma tante altre racconta di eccellenti risultati. L’aggettivo naturale, nel vino come nel cibo, riflette una diffusa richiesta di riforma rivolta alla vita in generale: molti hanno aderito spinti da un onesto desiderio di cambiamento, ma qualcuno rischia di approfittarsene.
Il topo e il salame
Sul vino naturale Sandro Sangiorgi è stato chiaro sin dalla pubblicazione del suo libro più ambizioso, quel L’invenzione della gioia, pubblicato nel 2011, che distilla la sua trentennale esperienza: quando lo si produce non si può prescindere da una corretta competenza tecnica e agronomica, né dall’accollarsi i necessari gravami, in termini di tempo e di fatica. Quando il produttore è distratto, o manca di volontà ed esperienza, la sua assenza si riverbera sul vino. Oggetto della critica di Sangiorgi, ovviamente, non è il vino naturale, ma un certo modo di produrlo: “il mercato degli innamorati dei vini naturali si è riempito di bottiglie di sconosciuti interpreti francesi e spagnoli che hanno fatto della sciatteria una specie di marchio distintivo”. Un fenomeno in crescita – sembra – quello dei vini naturali maleolenti e di cattiva qualità, animata da una ondata di nuove cantine in cui la spontaneità dei processi produttivi e l’improvvisazione da parte di chi li produce hanno assunto una sconsiderata sinonimia. “Protagonisti di questi incidenti – continua Sangiorgi – sono stati all’inizio produttori e produttrici della nuova leva: incoraggiati dalla spontaneità a prescindere da tutto, hanno rinunciato all’anidride solforosa senza però la minima competenza e consapevolezza di cosa accade tra la vigna e la cantina e durante la fermentazione”. Significativa – continua Sangiorgi – l’attribuzione di una valenza “eroica” al completo rifiuto dell’anidride solforosa, una rinuncia considerata da alcuni da premiare in ogni caso, a prescindere dal risultato finale: “i dogmi, gli assolutismi, se talvolta e da qualche parte hanno funzionato, non è stato certo nell’ambito della viticoltura e dell’enologia. Spacciare per vino genuino il frutto dei propri errori non è un buon servizio al vino naturale: “ogni produttore naturale ha sperimentato la perdita di una partita, di una vasca, rinunciando a imbottigliare, senza sottrarsi alla responsabilità verso il cliente.”
Il vino naturale ha preso una brutta strada?
La domanda se l’era già posta un anno fa Stephen Buranyi, con un lungo articolo sul Guardian, Has wine gone bad?, che aveva fatto discutere. Il vino naturale, per molti dei suoi detrattori rappresenta solo “una forma di luddismo, una sorta di movimento anti-vax viticolo che loda quei puzzolenti, acetosi errori, di cui la scienza è riuscita a liberarsi nel secolo scorso“. Per Wine Spectator odorano tutti di “sidro difettoso o sherry andato a male“; addirittura l’Observer parla di “un acre, sgradevole esplosione di acido che fa venire voglia di piangere”. Non per Buranyi, per il quale è quantomeno limitante usare le puzze di alcuni campioni per omologare l’intero comparto. Se il vino naturale ha trovato casa in “parecchi tra i più acclamati ristoranti – Noma di Copenaghen, Mugaritz di San Sebastian, Hibiscus di Londra – supportati da sommelier convinti che i vini tradizionali siano diventati troppo lavorati, e inappropriati per una cultura del cibo che premia tutto ciò che è locale” varrebbe forse la pena approfondire il discorso. È il vino naturale il segmento di un enorme processo di rigetto sociale, economico, psicologico, dai contorni ancora non del tutto definiti. Il rifiuto dei pesticidi e dei presidi enologici, l’uso della fermentazione spontanea e di uve biologiche, sono solo una parte dell’argomento. A volte la spinta a produrre in maniera naturale sembrerebbe rispondere, tra le altre cose, a un diffuso desiderio di ribellione a disciplinari o profili organolettici omologanti, come accade con i Sancerre di Sebastien Riffault, Sauvignon atipici eppure ottimi.
Naturalmente vino
La mancanza di una definizione a norma di legge non aiuta. Come scrive Francesca Zaccarelli sul numero #17 di Vitae, “il vino naturale non è ancora regolato da un vero disciplinare specifico, nonostante recentemente sia stata redatta e firmata da quaranta produttori una carta di intenti con un protocollo minimo agronomico, che vorrebbe essere la base per un progetto di legge nazionale e un giorno europeo“. Le difficoltà, dunque, sono tante, perché si tratta di “promuovere e nel riconoscere un autentico vino naturale, in una realtà esente da norme e controlli accurati, e in un marasma di definizioni e interpretazioni che spesso sortiscono confusione e nascono più da un’esigenza di mercato che da una volontà produttiva veramente alternativa e da una ricerca nel consumo consapevole“. Questo non vuol dire mettere al rogo il vino naturale, ma fare gli opportuni distinguo tra chi agisce senza le dovute competenze e chi “accompagna la pianta e i suoi frutti verso un risultato il più spontaneo e naturale possibile” con l’aiuto di una solida preparazione tecnica. Non si tratta di abbandonare il vino a sé stesso, ma di compiere scelte tecnicamente adeguate, in vigna e in cantina, che siano frutto “del rispetto per il territorio, dal valore delle relazioni umane e dal rapporto di appartenenza e gratitudine con la terra”. Un valore, quello della relazioni umane, in cui “la ricerca attenta del consumatore e la professionalità del produttore sono aspetti fondamentali per costruire un dialogo trasparente e alla pari tra chi offre un prodotto seguendo un credo di indubbio interesse e chi sa apprezzarlo per tutto quello che significa.“
Gherardo Fabretti